29 Agosto - 01 Settembre, Zamami, l’idea tropicale.
Vi è l’idea di vacanza da preparare
nell’estate calda, l’ideale luogo occupato da una levigata spiaggia bianca; il
bagnarsi in acque colorate con un trasparente verde smeraldo.
Vi è il restare a zonzo del corpo
sotto il sole cocente, il galleggiare dei pensieri sotto la testimonianza di
coralli e pesci di tutti i colori.
Vi è Zamami, un’isola dei tropici
nel sud del Giappone, che ha tutto quello e anche altro.
Ed io volevo l’altro.
Le
mie giornate a mare avevano una tendenza a ridursi in sveglie molte mattiniere,
in tramonti alla spicciolata, evitando il sole, per ore, sotto ombre a pezzi di
un bar, bagnandomi di notte nella via lattea e le sue stelle cadenti.
Completato
il mio check-in in solo pochi minuti avevo già capito quello che non volevo;
nessuna escursione in barca per visitare isole più remote, o affittare scooter
per trovarmi in luoghi incontaminati, o ingurgitare cocktail sulle balconate
all’aperto di ristoranti. Cercavo solo la semplicità di una sfuggente
‘routine’, di una bellezza gentile, di un luogo incredibilmente già visto.
Mi
svegliavo molto presto.
Tra
le cinque e mezzo e le sei, mi alzavo. Afferravo una mela o una banana e in venti
minuti fischiettando ero in spiaggia. La spiaggia era tutta mia…e dei granchi.
Sfilavano veloci al movimento dei mei piedi, al passaggio delle onde, alla
ricerca della loro spiaggia. Io non c’ero nella loro spiaggia. Io ero solo altro, un altro informe per quegli animaletti che zampettavano giallastri tra un
granello e altro. E sotto gli occhi di quei crostacei brullicanti mi buttavo nel
mare tutto nudo.
Quattro
mattine, quattro bagni ‘ignudi’.
I
primi turisti sarebbero arrivati intorno alle otto e mezza/ nove. I primi
responsabili dello stabilimento balneare avrebbero aperto intorno alle otto.
Fino
a quegli orari potevo lasciare scivolare il tempo bagnato dai tuffi, dalla
spuma rumorosa, dal sole ancora un po’assonnato. Non c’era altra libertà che lo svegliarsi
senza orari, dei sandali sull’asfalto ancora un po’ umidiccio, dello sdraiarsi
sulla spiaggia infreddolita, dell’essere nella mente e nel corpo nude onde,
nude correnti.
Nell’ultima mattinata al risveglio del mio
riposo galleggiante trovai una famiglia di tre.
‘
E ora come faccio’. Fu il mio pensiero sorpreso. Ero senza costume, dovevo per
forza attendere.
E
comunque che ci faceva una famiglia con un figlio sui i quattro anni alle sei e
mezzo di mattina sulla spiaggia? Erano proprio dei cattivi genitori. Pensavo
infastidito.
La
mia speranza era che si sarebbero buttati tutti e tre nel mare, o che si
sarebbero spostati dopo un po’.
Attendendo non si muovevano.
Attesi per un bel po’ e il tempo diventava sempre più cocente. Lo stabilimento!
Attendendo non si muovevano.
Attesi per un bel po’ e il tempo diventava sempre più cocente. Lo stabilimento!
Decisi
di uscire così com’ero.
L’attimo
di richiamo fu il padre impegnato a fare snorkeling, la madre a dormire sullo
sdraio, il piccolo a giocare con la sabbia.
Uscii,
nato una seconda volta, nudo, fuori dal mio paradiso privato, senza foglie di
fico.
A
falcate lunghe e gocciolanti cercai il mio zaino, il mio telo. Lo trovai ed ero
di nuovo un uomo abbigliato.
Ed
era stato tardi. Gli occhi del piccolo erano su di me.
Da
quanto?
Abbozzai
un sorriso storto. Il bimbo ritornò alla sua sabbia.
Al
bar, non quello all’italiana, ordinavo sempre torta e cappuccino.
Un
container messo di traverso tra quattro mura tirate su alla meglio, abbellito
da tre tavoli e dodici sedie di plastica e due alberi spelacchiati a fare una ombra incerta.
I
proprietari, due giovani sotto la trentina, dondolavano tra un cliente e un
altro. Sorridevano a tutti con un figlio nella fascia a tracolla, o con un
altro imbracato come uno zaino sulle spalle, e un altro ancora che faceva
slalom con i suoi pastelli e libri di figure tratteggiate e senza colore.
Avevano
un caffè decente. La moglie faceva delle buone torte a base di banana e miele.
Io assaporavo e sfogliavo il mio libro ‘Non è paese per vecchi’.
Sotto
l’ombra mozzata lasciavo il calore infuriarsi fino alle ore della siesta. Partecipavo
alla pura serenità in quelle formiche che spulciavano il caos delle briciole
sparse, nel vento scarno contro
l’umidità schiacciante, nei discorsi pacati di due giovani coppie della base
americana di Okinawa.
Io
ero seduto di spalle e non li vedevo. E come me, erano alla ricerca di una
protezione a quelle ore di vacanze assolate. Come me, dovevano solo attendere
il tempo per la prossima azione; per me era dormire un po’, per loro prendere
il traghetto.
Inevitabile
nei momenti in cui mi staccavo dalle parole scritte, quelle pronunciate
arrivavano al mio orecchio. All’inizio per disturbare, ma dopo per incuriosire.
In
poche parole origliare era un buon passatempo.
Tra
i vari discorsi, che avevano un inizio e una fine definita, ecco i miei
favoriti:
Quello
sulla morte.
Una
delle due ragazze gettò sul tavolo, tra un frullato di frutta finito, in quella
bella giornata, nell’ozio sorseggiato tra un caffè lungo e un panino mezzo
vuoto masticato lentamente, la domanda: come tutti i suoi amici s’immaginavano
la loro morte.
Le
risposte dei suoi commensali si cancellarono immediatamente nelle pagine del
libro che stavo leggendo. Invece la sua, della ragazza che aveva lanciato la
bomba, aveva un che di romanzesco.
La
ragazza s’immaginava di morire giovane e in azione. Possibilmente non in
guerra, ma in una situazione dove il suo sacrificio avesse potuto salvare la
vite di altre persone. La sua morte doveva avere un significato e l’unico
significato accettabile era quello di dare senso alla sopravvivenza altrui.
‘Non si deve morire inutilmente, come nelle malattie, o nella vecchiaia. L’unica
morte vera è quella per salvare gli altri.’ Le sue parole grosso modo.
I
commensali non potevano che approvare questo senso di giustizia assoluta. Io non potevo che sorprendermi. Il vero
romanzo non era quello che stavo reggendo nelle mie mani, ma quello che stavo
ascoltando dietro alle mie spalle.
Quello
sull’amore.
Uno
dei ragazzi, nella sua lunga vita di ben venti due anni, aveva imparato una
cosa: a non lasciarsi andare mai più ai sentimenti.
Nelle
sue relazioni passate l’amore, quando era quello vero, non poteva che portare a
catastrofi. Aprire il proprio cuore a un’altra persona voleva dire rischiare il
proprio futuro.
‘Poiché
quando sei innamorato, fai dei progetti per due persone. E quando ti mollano,
allora, tutto il tuo futuro crolla.’ Fece una pausa. ‘Ora ho capito. Ho capito
che si deve vivere nel momento. Solo il momento. E bisogna pensare solo a
stessi, a quello che vuoi fare per te stesso. Poi se l’altra persona puo seguirti o meno, questo non conta più’.
La
sua ragazza, seduta al suo fianco, non si lasciò scappare quella conclusione
per riassumere la verità del discorso del ragazzo.
‘
Tu dici questo, perché hai paura che io, da un momento e l’altro, possa
lasciarti. Come ho fatto con tutti i miei ex’.
E rivoltasi all’altra ragazza con tono tranquillo. ‘È solo insicurezza,
niente di più’.
Al
mio orecchio suonò come una conferma della teoria del ragazzo. Il risultato era
già scritto e nonostante tutto, quei due continuavano a interpretare quella
relazione. Ero senza parole nonostante tutte quelle scritte davanti a me.
Quello
su Batman - Joker.
Finalmente
un argomento vero.
L’altro
ragazzo, che faceva un po’ il saputone, dimostrò come Joker fosse l’immagine
speculare di Batman. Ciò che Batman rappresentava nel bene come vigilante
mascherato sopra la legge degli uomini, era Joker come la maschera del male nella legge dell’uomo. Nel momento in cui Batman indossava la maschera per
la sua crociata privata, apriva lo spazio per la creazione di tanti possibili Joker.
Di fatti Joker in qualche modo è riconoscente a Batman per la sua propria esistenza.
Solo attraverso la maschera di Batman Joker può vedere se stesso.
Ottima
argomentazione. Non c’è che dire.
Solo,
è proprio necessario rispecchiarsi nella maschera di qualcun altro, o
dell’Altro in generale, per riconoscere la propria? O quello che c’è dietro?
Come
se ci fosse poi qualcosa.
E
con quella domanda i ragazzi americani lasciarono il palco per avviarsi al loro
traghetto.
Spalmato
durante i tramonti veloci dei tropici.
Trovai
un buon posto. In generale con i tramonti non avevo sempre molta fortuna. Ora
avevo trovato una curvatura della spiaggia, delle montagne in alto mare, una
prospettiva dove stanare la frequenza giusta. Potevo leggere in pace il rossore
dell’orizzonte, la scomparsa del tempo nel chiarore del sole infaticabile, la
sua ricomparsa nel colore denso del mare stacanovista. E lo avrei fatto per ben quattro volte. Quattro
volte, quattro tramonti diversi.
Con
ogni tramonto ho sempre la stessa sensazione del mondo.
A
Zamami sentivo di nuovo la lentezza dell’attimo svanire nella rapidità famelica
del divenire. Percepivo il punto di contatto tra notte e giorno mescolarsi continuamente
nelle pennellate di colori unici. Partecipavo alla bellezza assurda del mondo e
non di meno alla sua assoluta necessità.
Cercavo
così di descrivere a me stesso quell’esperienza e sento delle grosse risate in
lontananza. Non ero il solo fortunato.
‘Hai
visto l’unghia del suo alluce?’
Poco in là, nell’acqua fino alla vita, vi era un altro gruppo di americani sempre della stessa base militare di Okinawa.
Poco in là, nell’acqua fino alla vita, vi era un altro gruppo di americani sempre della stessa base militare di Okinawa.
Li
vedevo bene quella volta. Tutti con lo stesso taglio di capelli e una struttura
muscolare a forma di ‘T: Spalle larghe, bicipiti sporgenti, ventre appianato,
gambe a reggere tutto il peso della difesa del loro paese.
Erano
anche loro a guardare il tramonto.
Accampati
tra alberi e terriccio a lato della spiaggia, si versavano in feste e baldorie varie. Liberi dalla responsabilità di esercizi, possibili missioni di pace,
comandi innegabili si lasciavano intanto a mollo per tutta la durata di quello
spettacolo.
C’erano
anche delle ragazze, di fisico ben definito: ventre piatto, forme slanciate,
sorrisi luccicanti.
Fuori
dal sistema, i ragazzi iniziavano le loro mosse di corteggiamento, come se ce
ne fosse stato bisogno per la quantità di litri di birra economica che le ragazze si
sarebbero scolate nella lunga notte umida. Tra le tante mosse c’era quella
dell’alluce con l’unghia incarnita.
‘Hai
viso il suo alluce?’ Chiedeva un ragazzo con i capelli a spazzola biondi,
indicando l’amico robusto rasato a zero.
‘No’.
Ridacchiava già la ragazza di colore con i capelli a cespuglio.
‘È
una cosa incredibile!’ Disse il ragazzo. ‘L’unghia è tutta nera. Ed è gigante.
‘Sì,
incredibile’. L’amico confermò, quasi vantandosi.
La
ragazza scoppiò a ridere per la scenetta messa su dai due militari. Intanto il
sole scendeva giù, facendo crepuscolo di ogni mossa di corteggiamento rimasta.
La
via lattea era il mio dessert prima della buona notte.
Alle
10 di sera il mio hotel spegneva tutte le luci. I bar mi aspettavano sparuti
nell’isola. Chissà quale incontro interessante. Invece la prima notte optai per
un passeggiata nella notte, che si fece sentire subito come abitudine.
Non
c’erano suoni o rumori particolari tra le viuzze squadrate di Zamami. L’estate dominava il
tempo, il calore fisso sui 30 gradi con umidità accettabile, le cicale timide e
stordite, i turisti nel loro mangiare e bere il trovabile.
Tutto
era buio. Ogni colore era risucchiato nell’oscurità intensa o accennata. Le luci
delle case si intrufolavano in essa senza possibilità di vittoria. E andava
bene così. Il cielo invece era vibrante di stelle vicine, vicine nel tempo o
nello spazio. Più le guardavo più cercavo l’assoluta vittoria del buio.
Non
mi restò che avviarmi al mare, al porticciolo sprovvisto di moderni lampioni
elettrici.
Sulla
banchina dove ero giunto, sbatteva il mare. Sulla destra c’era
la spiaggia colorata di nero. Non volevo macchiarmi di sabbia. Cercavo altro.
Gironzolai
qualche minuto tra tavoli da pic-nic e il piccolo ufficio del turismo. Vedevo solo
gli stenti delle loro forme, fino a notare uno spazio piano, rettangolare di
puro denso nero.
Mi
avvicinai e con cautela abbassai la mano in quel buco nero di tutte le forme. Subito toccai la materia del legno. Era un palchetto davanti al mare. Ne cercai le scale. Fatto e gli fui
su.
Sul
palco tutto lo spettacolo delle stelle era mio.
Mi
sdrai tuffandomi nell’immensità della via lattea, della gravità che tiene
insieme le galassie, dello spazio-tempo che curva e trasporta l’universo per quello
che è. E mi bagnavo nei neutrini che tutte quelle stelle gettavano attraverso il mio corpo, nuotavo nelle possibili spiegazioni di me e del tutto sopra di me. Mi
tuffavo nel passato di quella luminosità che viaggiava ad anni luce.
Era
così per quattro notti, prima di scambiare una chiacchiera con qualcuno, sorseggiare
una birra. Non c’erano vere e proprie risposte. Non c’erano tempi per scatti o
promemoria. Vi era solo il lasciarmi andare sul palco della vita.
E
non era il solo a lasciarsi andare.
In
una notte, la più fresca, in quanto vi era stato un temporale breve nel tardo
pomeriggio, al mio lato a rilassarsi sul palco della vita vi era un coppia di
cinesi. E il maschio si rilassava ben, bene con il suo ritmato russare sommesso
e ordinato. Non c’era disturbo per la compagna che osservava il cielo e teneva
la mano di lui. Erano anche loro felici di essere nel palco della vita.
Purtroppo
quello spettacolo era destinato a finire ogni volta, con me, che come il cinese,
si risvegliava al mondo con in pugno solo la certezza dell'idea di un'isola tropicale.






