Wednesday, August 28, 2019


25-26 Beppu, la città infernale delle Onsen

            Una lunga tradizione ha insegnato ai Giapponesi che se non puoi fuggire dai vulcani, visto che ce le hai sotto il culo, allora ci costruisci su. In più ne sfrutti il calore per creare centri di acque termali, chiamati ‘onsen’. Poi osservando la pressione dell’aria calda che esce sbizzarrita dal suolo, dovresti pensare preoccupato a un’eventuale e prossima esplosione, e invece no, pensi a quale bollito o ‘ramen’ dover cucinare e addirittura a come aprire un ristorante.


            Beppu, nell’isola di Kyushu, è il miglior esempio di quest’atteggiamento sfrontato, sempliciotto, spensierato e spericolato nei confronti di calamità naturali incontrollate.  E con il tempo, con le distruzioni e le morti, gli abitanti di Beppu come si preparano per il futuro: prendendo in giro in un circoscritto ambito di rispetto quelle stesse calamità.
            Ovviamente anche i primi abitanti dell’area si erano accorti della pericolosità di costruire una casa in quelle zone. ‘Jikoku’, ‘gli inferni’, così le hanno chiamate. D’inferni ne hanno trovati sette. In quei punti le sorgenti d’acqua fuoriescono così bollenti da cuocerti vivo solo se ti avvicini. Filtrate dal folklore e dalle leggende locali, i ‘Jikoku’ sono i luogi dove risiedono demoni che dovevano essere tenuti a bada con cerimonie, rituali, offerte.
            Oggi, ogni inferno è un parco a tema. Lo attraversi, ovviamente dopo un’offerta, da parte a parte, stando attento a non essere ‘rapito’ o toccato dal demone di turno. Il demone di turno si è incarnato in una replica reale, a volte semovente, con occhi di rosso lampeggiante, con espressione cattiva che risulta essere solo buffa.  La voce altisonante da sottofondo da cartone animato non aiuta con l’effetto paura. 
            Curiosità in uno di quegli inferni ci hanno messo anche dei coccodrilli. Li allevano, non come sacrificio per placare i demoni, solo come pellame per borse, scarpe, cinture varie.
           
            Ritornando al mio hotel dopo il giro all’inferno chiesi al ‘receptionist’ che cosa pensasse di avere un’attività vulcanica sotto i piedi.
            Mi guardò un poco perplesso.
            ‘no, dico. Il fatto che ci siano tante acque termali calde, gas che escono dal suolo, è chiaro segno di un’attività vulcanica, che potrebbe provocare qualche terremoto, non so, qualche disastro, no?
            Lui mi sorrise quasi sconsolato. Forse pensando: questi turisti, ah. Sospirando.
            ‘Per noi che viviamo a Beppu, non ci pensiamo per niente. È tutto normale
            ‘Capito.’ E mi avviai alla mia camera di otto letti.

            La mattina dopo, nel dormiveglia, mi sembrò di sentire una vibrazione.
            Mi dico: ‘Niente’
            Mi girai un paio di volte per riprendere sonno. Di nuovo vibrazione. Mi fermai.
            Aprì gli occhi in attesa.
            Vibrazione. Quella volta più forte.
            Io mi trovavo in un letto a castello, in quello di sotto, al terzo piano in una struttura costruita da più di cento anni. Così mi aveva risposto il ‘receptionist’ per pregiare la struttura alla mia domanda se ci fosse stato un ascensore.
            Vibrazione, la quarta in pochi minuti. Il letto a castello tremò tutto. Io scattai fuori e atterrai sul suolo come un gatto, a quattro zampe.
            ‘Corro o non corro.’ Pensai velocemente.
            Attorno a me, gli altri compagni di stanza compivano le loro azioni con movimenti assonnati. Non mi avevano neanche degnato di un sorriso di scherno.
            Riprendo la posizione eretta. Sentii un’altra vibrazione. E incominciai a fare mente locale. Davanti all’ostello stavano costruendo un centro commerciale. Stavano scavando. Sicuro vi erano dei mezzi pesanti di passaggio. Ecco il terremoto che mi aspettavo.
           
            Una volta giù. Raccontai l’aneddoto al ‘receptionist’.
            Lui mi rispose ancora con quel sorriso di pietà per il turista medio.
            Io un po’ offeso allora chiesi.           
            ‘ be’ forse ho esagerato, però in Giappone ci sono spesso terremoti. E non sono io ad inventarmelo.
            Lui era d’accordo.
            ‘Per esempio quando è stato l’ultimo grande terremoto?’
            ‘Nel 2016’ Rispose.
            ‘Certo, Certo. Il terremoto di Fukushima. Quello della centrale nucleare.
            ‘Esatto!’ Ora si era fatto serio.
            ‘ È stata una vera tragedia. Mi chiedo come sono le cose ora in quella zona’
            ‘Cosa?’
            ‘ Voglio dire…’ E qui mi fermai. Non sapevo se accennare al fatto che c’era un sospettoso silenzio sui reali effetti provocati dalla rottura del reattore nucleare. ‘…chissà. È stata una catastrofe per la gente, per la natura e per la flora e la fauna tutta attorno.’ Dissi sul vago           
            ‘ Infatti. Anche noi, per noi giapponesi è stato molto scioccante. Anche a pensare agli effetti delle radiazioni.
            ‘Sì, di fatti’ Meno male era stato lui a introdurre l’argomento. ‘Voi cosa pensate? Perché in Europa non ci sono prevenute notizie chiare su quello che è successo dopo l’incidente.
            ‘ Anche qui. Ci sono stati alcuni servizi televisivi sugli effetti sul mare, che si sono propagati fino al sud. Ma poi niente di più.                       
            ‘ Come niente di più?’ Chiesi sorpreso.
            ‘Non se n’è più parlato.’
            ‘ Ma non è strano? Tu non vuoi sapere cosa è successo veramente?
            Lui mi osservò cercando di soppesare le parole da usare. Del resto ero sempre un turista.
            ‘E perché? Anche se si sapesse tutto, cosa dovrebbe fare la gente di quelle parti, o tutti gli abitanti del Giappone?
            ‘ Ma…’ e rimasi appeso a quel ‘ma’ perché lui concluse.
            ‘Una volta che è successo, la sola cosa che puoi fare è ripartire. E accettare tutte le conseguenze con esso, perché altra scelta non c’è.
            Che dire; la forza di sacrificio non ha mezze misure.
            Ci guardammo per un po’.
            ‘Cmq le onsen sono un’invenzione stupenda’. Dissi per spezzare il silenzio.
            ‘Questo è vero’.
            E gli parlai delle mie impressioni sulla ricerca del miglior “relax” possibile.



            L’obiettivo era di visitarne almeno 7 o 8.
            La prima fu l’insabbiamento.
            Fatta una fila di 45 minuti, entro nella zona della sabbia calda. Seguo le indicazioni di una tipa e mi ritrovo davanti ad rettangolo segnato al suolo. A fianco c’è un tipo che mi invita a sdraiarmi. Lo faccio. Mi dice a gesti di mettere le braccia lungo i fianchi e che non devo muovermi. Con paletta e secchiello, direi, mi ricopre di sabbia nera e vulcanica. Tempo 10 minuti distrugge la sua creazione e io sono sotto la doccia. Intenso e veloce.
           
            Secondo i fanghi.
            Qui va tutto più veloce. Ti devi fare la doccia sempre. Questa è una regola fondamentale per ogni ‘onsen’, anche se ti sei lavato venti volte prima. Nell’insabbiamento non era stato necessario.        Mi siedo su uno sgabello basso e incomincio a buttarmi acqua addosso con un secchiello. Non hanno la doccia degli occidentali. Mi lavo per venti minuti. Pulito, m’infango tutto. Melmoso e caldo provo a muovervi nella vasca. Dopo un po’ ci rinuncio ed esco. Troppo caldo. Aspetto un attimo per rientrare ma è troppo tardi. La vasca si riempie di un nuovo gruppo pulito di gente. Aspetto che vada via per rientrare. Va via ma un nuovo gruppo entra. E così per un paio di volte mentre il fango si secca dando prurito. Non mi resta che ritornare alla doccia e provarne un’altra.
           
            Terza acqua azzurra sulfurea.
            Questa qua è proprio la tipica Onsen che mi ero immaginato. All’aperto, circondata dagli alberi, da giapponesi immersi nell’acqua con un piccolo asciugamano piegato sulla testa. Mi butto dentro, dopo aver saluto come il galateo ‘onsen’ suggerisce. Sono però troppo impetuoso. Muovo le acque calme e il riposo di alcuni giapponesi. Sento solo sospiri. Mi scuso indistintamente verso le quattro direzioni. M’immergo e lì voglio rimanere in silenzio.
            Intanto intorno a me ci sono tutti maschi, perché in Giappone uomo e donna sono in zone rigorosamente separate, seduti come adoni ‘panzuti’o di fisico definito che chiacchierano tranquillamente con le parti intime in bell’evidenza. Si bagnano un po'. Là a sedersi di nuovo a bella vista ad asciugarsi come lucertole nude. Chi invece è solo, dopo dieci o poco più di muniti si lava ed esce. Io rimango un bel po’ alternando bollitura ed essicazione. Alla fine capisco il perché dell’asciugamano sulla testa. Non c’è spazio per poggiarlo. Di fatti il mio lo avevo appeso su ramo di un albero. E quando lo avevo fatto altri sospiri.
           
            Quarto, il forno alle erbe.
            Sì, proprio un forno. Ti lavi di nuovo.  E tutto nudo mentre cerco di indossare il ‘yukata’, la signora dello stabilimento tutta tranquilla mi spiega cosa devo fare.
            ‘No, giapponese. Inglese’ Le dico.
            ‘No inglese, giapponese’ Mi risponde.         
            Quindi continua la spiegazione a gesti, poi aggiunge:
            ‘Otto minuti’
            Il ‘bip’ di un timer suona e mi apre una porticina da nano che introduce in una grotta mezza naturale mezza modificata dall’uomo. A terra dell’erba, che sembra del fieno, ricopre tutto il suolo. Effettivamente ha un profumo di qualche genere. Io seguendo le istruzioni, metto l’asciugamano sul cuscino di pietra, mi sdraio a pancia in su e incomincia l’abbrustolimento. Otto lunghi minuti di cottura ed io mi sono sentito come si sente una pizza. Il ‘bip’ arriva liberatorio. Una volta fuori la signora mi dice
            ‘ molto, molto bene, no?’ E imita un respiro profondo.


            E profondo è stato il sonno. Dopo il quarto non avevo più energie.       
               
                
           
              
                
                                                    



1 comment:

  1. Sono proprio napoletani sti giapponesi! Anche riguardo l'inferno, il cui ingresso da noi si trova nell'averno... Un abbraccio Leo!

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