Saturday, August 31, 2019


27-29 August, Fukuoka, visione post-contemporanea.

         La folla ordinata, quella che sa cosa fare sotto l’ombra dei grattacieli rigogliosi, quella che ha un momento di esitazione calcolata alla luce rossa dei semafori, quella che di sera sotto l’illuminazione mai stanca vede in un sorso cose diverse, quella folla che molleggia tra la sveglia, la pausa pranzo e un mezzo di trasporto qualsiasi, salda una metropoli.

            La folla ligia è l’armonia degli intenti, l’acquietamento del senso, la garanzia della gerarchia, la contabilità di vacanze, lo spendere della ‘mia’ volontà, la libertà guadagnata alla fine del mese. Quella folla fa una società.

            Certo ci sono anche individui, ma cosa sono in confronto alla folla. Anche se messi in parole proprie, anche se credenti nella loro identità, anche se soggetti unici nel loro apparire, sono assorbiti nelle file incandescenti, nelle corse al riconoscimento concesso, nel giudizio dell’illegale approvato. Nella folla c’è tutta una serie di giochi, dove sognatori addomesticati, protestatori in libertà vigilata, stilisti originali immediatamente copiati, possono mettere sul tavolo quello che pensano saper fare meglio. E poco importa se vincano o perdano. La folla ha bisogno del loro giocare per essere forza, per divenire volontà.



            Così con quei pensieri vedevo quello che c’era attorno a me. E attorno a me c’era Fukuoka.
E non mi dispiaceva.
            Non c’era in quei pensieri un giudizio negativo, anche se può sembrare.
            Stavo attraversando un ponte e mi fermai su una panchina a forma di masso lucente e levigato. Ce ne erano quattro di quel tipo. Il giallo sciolto lungo i parapetti e il pavimento si abbinava perfettamente al momento. 
            Sull’altro lato, opposte alle mie, le stesse panchine ospitavano un occupante differente. C’era una donna che suonava il ‘shamisen’, uno strumento a tre corde di origine cinese. La donna non cantava, starnazzava. E per quanto la voce da sola fosse fastidiosa, ascoltandola insieme a quello strumento, su quel ponte, in quella città mi donava un senso di rilassamento e positiva attesa.

            Avevo passeggiato tutto il giorno, seguendo il mio ritmo, senza un luogo dove dirigermi; prendere un angolo, attraversare un semaforo, fermarmi su una panchina per riprendere le forze, continuare ancora. Avevo visitato centri commerciali, trovandoli anche belli. Avevo trovato templi importanti che nessuna guida menzionava con lo spirito dell’esploratore tipico del bambino che lo sogna. A occhi aperti c’era la folla che non mi spaventava, non mi rimpiccioliva, non invidiavo. In qualche modo per quanto non c’entrassi niente, sapevo che quella notte sarei finito nella stessa capsula degli accoliti della folla.       

            In un Pub inglese, un gruppetto di giapponesi fece la sua comparsa: cinque ragazzi e due ragazze. Per semplicità sarebbe possibile descriverli con sette caricature: per i maschi, il coordinatore, il comico, lo sfigato da prendere in giro, il silenzioso, il figo. Le due ragazze: la svampita e la timidina. Tutti i ragazzi erano vestiti con pantaloni leggeri neri e camicie di azzurro chiaro. Erano i vestiti per il lavoro. Le ragazze invece si erano preparate ben, bene.  

            Dopo aver scelto due tavoli vicini all’entrata, si posizionarono. Partendo dalla desta di svampita erano così seduti: sfigato, coordinatore, silenzioso, figo, comico, timidina e svampita.
            I mattatori della sera ovviamente erano comico, aizzato da coordinatore, e svampita. A volte figo interveniva. Gli altri due erano poco più che comparse.
            Si procedeva con le battute di comico e piccole sorsate alle bottiglie. Timidina non l’aveva proprio toccata. Svampita allora corse ai ripari e suggerì il gioco: ‘Vai, salta, indietro’.

            Il gioco era semplice. Il primo diceva ‘vai’, quello a destra poteva scegliere tra ‘vai’,’salta’ e ‘indietro’.  Se sceglieva ‘vai’ quello successivo poteva avere a sua volta la scelta delle tre parole. Se diceva ‘salta’, allora la scelta cadeva sulla seconda persona in successione alla destra. ‘Indietro’ andava a quello di sinistra. Il giro si svolgeva con una serie di ‘vai’ e poi all’improvviso qualcuno diceva ‘salta’ e se a parlare fosse stato quello di destra e non il successivo, perdeva e doveva farsi un sorso. Lo stesso valeva con ‘indietro’. Se a parlare era quello a destra e non quello di sinistra, allora beveva. Non c’è da immaginarsi che a perdere spesso era sfigato. Solo che il gruppo si divertiva con risate e grida alquanto sorprendenti per gli educati, rispettosi, obbedienti, regolati giapponesi.

            E tra i vari ‘vai’, ‘salta’ e ‘indietro’ si faceva tardi. E tra il chiasso vario e bambinesco tutto l’affollamento del giorno si assopiva senza però scomparire. L’indomani fedeli alla folla tutti e sette sarebbero rientrati nel gioco del ‘vai’, ‘vai’ vai’ senza salti e senza imperdonabili indietro. E il prezzo da pagare per assopire la folla, magari anche solo per un giorno della settimana. Era quel rinchiudersi in una capsula per la notte. Una capsula che non portava certo nello spazio, o che criogenicamente non ti metteva a dormire per un risveglio nei secoli futuri, una capsula che sembrava più un loculo da obitorio o da cimitero. Una capsula che io avevo scelto come alloggio.

            Nella società giapponese il concetto degli hotel capsula è molto diffuso, soprattutto nelle grandi città, dove immigranti lavoratori giornalieri arrivano e a volte non possono ripartire; troppo tardi per il mezzo di trasporto appropriato, troppo alcool per cogliere il mezzo di trasporto giusto.   Quindi con le loro cartelle da lavoro, il loro vestito uniformato, e nient’altro, vanno in questi hotel che riflettono i bisogni per una vita contemporanea. Oltre al letto incapsulato, ti consegnano una borsa contenente: un asciugamano grande, due piccoli, uno spazzolino con un dentifricio mono uso, delle pantofole usa e getta, e un pigiama.

            In qualsiasi ora apparivano nella zona degli specchi e degli asciugacapelli, che era poi la zona delle docce, a compiere le stesse azioni: farsi una doccia, asciugarsi i capelli con il pettine dell’hotel, mettersi il pigiama. Il pigiama, l’unico elemento che ti separava dalla folla.
            E in quel loculo ho dormito molto bene. Non c’era nessun rumore, nessuna luce che potesse filtrare. E come avrebbero potuto, l’hotel si trovava due piani sottoterra.


            Quando ero uscito dalla metro per cercalo, mi era bastato solo prendere una scala mobile ed eccolo là. Anche quello, l’accessibilità diretta alla metro, proprio tutto il tempo e lo spazio pensato, nessuna possibilità per smarrire la strada.  
             Così il giorno della mia partenza, dopo essermi rianimato dallo stato minerale, visto che ero sotto la crosta terrestre, scendo alla metro e veloce, veloce sono all’aeroporto.
            Potrebbe essere diretta la metafora del morto vivente che risorge dal sottosuolo e si trascina senza scopo oltre la vita. Al contrario, tutti quelli che uscivano dall’hotel capsula non erano dei morti viventi di tal sorta. Non si trascinavano da nessuna parte. Sapevano ‘liberamente’ dove andare. Ognuno si trovava lì, dove doveva essere. Me compreso.  


                  
            Post Scriptum        
            C’è speranza di cambiamento?
            Certo.
            Sono quelli che non sono stati contagiati dalla folla. Da quelle masse che vogliono entrare con la forza e che sono spinte fuori. E a ben ragione. La folla le teme. Tremendamente. Che cosa succederebbe se ci fosse un sovraffollamento? Le città inglobano tutto, in un quadro permesso, per diventare megalopoli, ma anche loro dicono ‘basta’. Quelle masse riscriveranno il limite, slargheranno il quadro e tutti noi saremo costretti a rimettere a noi i nostri debiti come noi li rimetteremo a un debitore.
            A quale?
            La scelta sarà nostra in quel momento. Forse è nostra in ogni momento.    
           
            .   

1 comment:

  1. O come vorrei affrontare quelle domande insieme. Me ne fai sorgere altre. Chi vuole sapere se la scelta è nostra? Colui che si pone questa domanda è più o meno libero di chi non ne ha coscienza? Vado a fare colazione, in gut We trust ;)

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