27-29 August, Fukuoka, visione post-contemporanea.
La folla
ordinata, quella che sa cosa fare sotto l’ombra dei grattacieli rigogliosi,
quella che ha un momento di esitazione calcolata alla luce rossa dei semafori, quella
che di sera sotto l’illuminazione mai stanca vede in un sorso cose diverse,
quella folla che molleggia tra la sveglia, la pausa pranzo e un mezzo di
trasporto qualsiasi, salda una metropoli.
La
folla ligia è l’armonia degli intenti, l’acquietamento del senso, la garanzia
della gerarchia, la contabilità di vacanze, lo spendere della ‘mia’ volontà, la
libertà guadagnata alla fine del mese. Quella folla fa una società.
Certo
ci sono anche individui, ma cosa sono in confronto alla folla. Anche se messi
in parole proprie, anche se credenti nella loro identità, anche se soggetti
unici nel loro apparire, sono assorbiti nelle file incandescenti, nelle corse
al riconoscimento concesso, nel giudizio dell’illegale approvato. Nella folla c’è
tutta una serie di giochi, dove sognatori addomesticati, protestatori in libertà
vigilata, stilisti originali immediatamente copiati, possono mettere sul tavolo
quello che pensano saper fare meglio. E poco importa se vincano o perdano. La
folla ha bisogno del loro giocare per essere forza, per divenire volontà.
Così
con quei pensieri vedevo quello che c’era attorno a me. E attorno a me c’era
Fukuoka.
E non mi dispiaceva.
Non
c’era in quei pensieri un giudizio negativo, anche se può sembrare.
Stavo
attraversando un ponte e mi fermai su una panchina a forma di masso lucente e
levigato. Ce ne erano quattro di quel tipo. Il giallo sciolto lungo i parapetti e il pavimento si abbinava perfettamente al momento.
Sull’altro lato, opposte alle mie,
le stesse panchine ospitavano un occupante differente. C’era una donna che suonava
il ‘shamisen’, uno strumento a tre
corde di origine cinese. La donna non cantava, starnazzava. E per quanto la
voce da sola fosse fastidiosa, ascoltandola insieme a quello strumento, su quel
ponte, in quella città mi donava un senso di rilassamento e positiva attesa.
Avevo
passeggiato tutto il giorno, seguendo il mio ritmo, senza un luogo dove
dirigermi; prendere un angolo, attraversare un semaforo, fermarmi su una
panchina per riprendere le forze, continuare ancora. Avevo visitato centri
commerciali, trovandoli anche belli. Avevo trovato templi importanti che nessuna guida
menzionava con lo spirito dell’esploratore tipico del bambino che lo sogna. A occhi
aperti c’era la folla che non mi spaventava, non mi rimpiccioliva, non
invidiavo. In qualche modo per quanto non c’entrassi niente, sapevo che quella
notte sarei finito nella stessa capsula degli accoliti della folla.
In
un Pub inglese, un gruppetto di giapponesi fece la sua comparsa: cinque ragazzi
e due ragazze. Per semplicità sarebbe possibile descriverli con sette
caricature: per i maschi, il coordinatore, il comico, lo sfigato da prendere in
giro, il silenzioso, il figo. Le due ragazze: la svampita e la timidina. Tutti
i ragazzi erano vestiti con pantaloni leggeri neri e camicie di azzurro chiaro.
Erano i vestiti per il lavoro. Le ragazze invece si erano preparate ben, bene.
Dopo
aver scelto due tavoli vicini all’entrata, si posizionarono. Partendo dalla
desta di svampita erano così seduti: sfigato, coordinatore, silenzioso, figo, comico,
timidina e svampita.
I
mattatori della sera ovviamente erano comico, aizzato da coordinatore, e
svampita. A volte figo interveniva. Gli altri due erano poco più che comparse.
Si
procedeva con le battute di comico e piccole sorsate alle bottiglie. Timidina
non l’aveva proprio toccata. Svampita allora corse ai ripari e suggerì il
gioco: ‘Vai, salta, indietro’.
Il
gioco era semplice. Il primo diceva ‘vai’, quello a destra poteva scegliere tra
‘vai’,’salta’ e ‘indietro’. Se sceglieva
‘vai’ quello successivo poteva avere a sua volta la scelta delle tre parole. Se
diceva ‘salta’, allora la scelta cadeva sulla seconda persona in successione
alla destra. ‘Indietro’ andava a quello di sinistra. Il giro si svolgeva con
una serie di ‘vai’ e poi all’improvviso qualcuno diceva ‘salta’ e se a parlare
fosse stato quello di destra e non il successivo, perdeva e doveva farsi un
sorso. Lo stesso valeva con ‘indietro’. Se a parlare era quello a destra e non
quello di sinistra, allora beveva. Non c’è da immaginarsi che a perdere spesso
era sfigato. Solo che il gruppo si divertiva con risate e grida alquanto
sorprendenti per gli educati, rispettosi, obbedienti, regolati giapponesi.
E
tra i vari ‘vai’, ‘salta’ e ‘indietro’ si faceva tardi. E tra il chiasso vario
e bambinesco tutto l’affollamento del giorno si assopiva senza però scomparire.
L’indomani fedeli alla folla tutti e sette sarebbero rientrati nel gioco del
‘vai’, ‘vai’ vai’ senza salti e senza imperdonabili indietro. E il prezzo da
pagare per assopire la folla, magari anche solo per un giorno della settimana. Era quel rinchiudersi in una capsula per la notte. Una capsula che non
portava certo nello spazio, o che criogenicamente non ti metteva a dormire per
un risveglio nei secoli futuri, una capsula che sembrava più un loculo da
obitorio o da cimitero. Una capsula che io avevo scelto come alloggio.
Nella
società giapponese il concetto degli hotel capsula è molto diffuso, soprattutto
nelle grandi città, dove immigranti lavoratori giornalieri arrivano e a volte
non possono ripartire; troppo tardi per il mezzo di trasporto appropriato,
troppo alcool per cogliere il mezzo di trasporto giusto. Quindi con
le loro cartelle da lavoro, il loro vestito uniformato, e nient’altro, vanno in
questi hotel che riflettono i bisogni per una vita contemporanea. Oltre al letto
incapsulato, ti consegnano una borsa contenente: un asciugamano grande, due
piccoli, uno spazzolino con un dentifricio mono uso, delle pantofole usa e
getta, e un pigiama.
In
qualsiasi ora apparivano nella zona degli specchi e degli asciugacapelli,
che era poi la zona delle docce, a compiere le stesse azioni: farsi una
doccia, asciugarsi i capelli con il pettine dell’hotel, mettersi il pigiama. Il
pigiama, l’unico elemento che ti separava dalla folla.
E
in quel loculo ho dormito molto bene. Non c’era nessun rumore, nessuna luce che
potesse filtrare. E come avrebbero potuto, l’hotel si trovava due piani
sottoterra.
Quando
ero uscito dalla metro per cercalo, mi era bastato solo prendere una scala
mobile ed eccolo là. Anche quello, l’accessibilità diretta alla metro, proprio
tutto il tempo e lo spazio pensato, nessuna possibilità per smarrire la strada.
Così il giorno della mia partenza, dopo essermi
rianimato dallo stato minerale, visto che ero sotto la crosta terrestre, scendo
alla metro e veloce, veloce sono all’aeroporto.
Potrebbe
essere diretta la metafora del morto vivente che risorge dal sottosuolo e si
trascina senza scopo oltre la vita. Al contrario, tutti quelli che uscivano dall’hotel
capsula non erano dei morti viventi di tal sorta. Non si trascinavano da
nessuna parte. Sapevano ‘liberamente’ dove andare. Ognuno si trovava lì, dove
doveva essere. Me compreso.
Post Scriptum
C’è
speranza di cambiamento?
Certo.
Sono quelli che non sono stati contagiati dalla folla. Da quelle masse che vogliono
entrare con la forza e che sono spinte fuori. E a ben ragione. La folla le
teme. Tremendamente. Che cosa succederebbe se ci fosse un sovraffollamento? Le
città inglobano tutto, in un quadro permesso, per diventare megalopoli, ma
anche loro dicono ‘basta’. Quelle masse riscriveranno il limite, slargheranno
il quadro e tutti noi saremo costretti a rimettere a noi i nostri debiti come
noi li rimetteremo a un debitore.
A
quale?
La
scelta sarà nostra in quel momento. Forse è nostra in ogni momento.
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